domenica 20 novembre 2011

Non vuoi dirmi il tuo nome? — Mi chiamo Michäel.

Probabilmente conoscete già la storia, almeno a grandi linee (in ogni caso cercherò di non svelarvi nulla di troppo): tutto comincia con l’arrivo in un complesso residenziale di una coppia di genitori con due figlie di sei e dieci anni e un terzo bambino in arrivo. La primogenita, Laure, predilige – a differenza della sorellina Jeanne – abiti unisex e capelli corti, e il suo aspetto androgino fa sì che i nuovi compagni di giochi la prendano subito per un maschio. Laure  non si scompone e, appropriandosi con un certa disinvoltura dell'identità maschile, si presenta come Michäel e dà vita a un gioco identitario caratterizzato da una performance di ruolo assolutamente credibile nella sua discretezza.
Si ha l'impressione di un fine lavoro di cesellatura, tanto nella pratica performativa di Laure/Michäel quanto in quella registica di Sciamma: quest'ultima riporta sullo schermo con delicatezza e attenzione ai dettagli la ricerca altrettanto minuziosa del* prim* di tutto quanto vi può essere di riproducibile – e quindi, per ciò stesso, di potenzialmente artificiale – nella maschilità dei maschi. Una maschilità che Laure si rivela in grado di ri-produrre con leggerezza e naturalezza, in una performance il cui orizzonte di senso è sfumato come e quanto l'identità che il corpo performante agisce e mette in scena. È solo un gioco? O magari si tratta di un'esigenza in senso forte? Forse non è possibile dare una risposta netta, soprattutto perché probabilmente una risposta netta non esaurirebbe la fludità e la molteplicità con-fusa – nel senso di “fusa insieme” – che caratterizzano la/il protagonista di questa pellicola.
Se c'è infatti un oggetto/soggetto di confusione comunemente intesa nell'opera di Sciamma, non è tanto Laure/Michäel quanto forse gli spettatori e le spettatrici: la presunta passività del nostro sguardo è messa in discussione dal gioco (in senso forte, performativo) che si manifesta sullo schermo, da quella specie di danza sulla linea sottile che sta tra Laure e Michäel messa in atto dal corpo androgino che l'una e l'altro incarna. È così che Tomboy smaschera con grande finezza l'ossessione sociale per l'attribuzione di genere, caratteristica che si vorrebbe fondante del nostro venire al mondo (registrazione del sesso anagrafico) e del nostro stare insieme nel mondo (il nome proprio, connotato dal punto di vista del genere, che ci fa esistere socialmente e politicamente). Non è un caso che l'avventura di Michäel cominci non tanto con l'essere apostrofata al maschile di Laure, ma con il suo presentarsi appunto come Michäel.
Anche per chi è al di qua dello schermo, la differenza tra Laure e Michäel – se esiste – sembra essere sempre più affidata, oltre che agli elementi per così dire prostetici della performance (il cui culmine e simbolo sarà una sorta di vera e propria protesi estetica modellata nella plastilina), proprio al nome che a quel corpo viene di volta in volta attribuito. Il corpo che vediamo sullo schermo, che sfugge alla categorizzazione esclusiva ed escludente dello schema maschio/femmina, è infatti sempre identico a se stesso, espressione genuina di una identità (io=io) che – fuori, oltre, trans – si mostra e, con forza, esiste.

martedì 23 agosto 2011

Lilium Auratum


Ce n'è voluto di tempo per arrivarci. Che poi non era nemmeno una cosa così assurda, ma di pollice verde pare ce ne sia uno solo in ogni famiglia e nella mia il posto era già occupato dalla nonna. Comunque.
Ho capito che c'è un sacco da imparare dalla botanica.
Ad esempio saper portare pazienza, trovare la forza di separarsi dalle foglie secche, e soprattutto resistere al dolore della potatura, ché tanto poi ricresce tutto e (si spera) meglio di prima. Bisogna diventare capaci di liberarsi di quel po' di sé che va lasciato andare e restare impassibili di fronte all'inverno, tanto le stagioni girano e prima o poi—.
Tutte cose piccole, sì, ma importanti. Anche perché se ci pensi bene le cose piccole sono le sole che esistano.

domenica 14 agosto 2011

Chissà se i lepidotteri nel trasformarsi da bruco in pupa e poi in farfalla hanno una specie di memoria ancestrale che fa loro presentire ciò che saranno e li conforta quando si abbandonano alla metamorfosi.
Delle croci che man mano siamo costretti a portare, più di tutte ho sempre sofferto quella dell'ignoranza.

mercoledì 20 luglio 2011

__oblivion__

Ho il sospetto che i sogni si prendano gioco di me, per questo la mia testa spesso si rifiuta di rammentarli. Sull'impronta del metodo applicato a segni, coincidenze, interpretazioni – tutte cose che non esistono se non all'interno dei nostri occhi. Eppure.
Espunzione, anestesia.
L'agnosticismo è una scelta deliberata, per essere atei o credenti basta seguire il proprio istinto (lo stesso in entrambi i casi, cambia solo il segno o forse nemmeno).
Come quando a scuola ti prendevano in giro e la mamma ti diceva Ignorali che poi si stufano.

venerdì 15 luglio 2011

?·¿

Sarà vera quella storia del calabrone e delle leggi dell'aerodinamica?
Anche lanciarsi nel vuoto è una questione di esercizio, ma un po' più difficile di tante altre.
Soprattutto se non sei un calabrone.

mercoledì 6 luglio 2011

( )

Mi piace pensare agli oggetti come a un ponte tra le persone. Per loro tramite ci stiamo sempre toccando gli uni con gli altri, anche a chilometri di distanza, soprattutto quando si tratta di oggetti fatti da mani di donne e di uomini per essere adoperati da altre mani, di altre donne e di altri uomini.
Sono il simbolo concreto della rete di relazioni che ci unisce e che chiamiamo mondo. Non per niente lo stesso termine "simbolo" nella sua accezione originaria significava proprio questo: un anello spezzato in due a rappresentare il legame di ospitalità reciproca tra due persone; le metà venivano tramandate ai rispettivi discendenti e grazie a esse la relazione sopravviveva, come condensata nell'oggetto che sarebbe tornato completo quando le due metà si fossero ricongiunte ("simbolo" deriva dal greco "symballo", "mettere insieme").
Il mondo è un simbolo.
Lo condividiamo, lo spezziamo con gli sguardi, e torna unito quando comunichiamo.

sabato 2 luglio 2011

°°peaceful°°

Mi preparo la pasta.
È una pasta svuota-frigo, ci ho messo:
- Peperoncino
- Pomodoro
- Zucchine
- Speck a dadini
- Parmigiano
Fuori il tempo è grigio e umido e pesante, ma non me ne importa nulla.
Mi preparo la pasta, non c'è nessuno in casa, solo io. Taglio le verdure, lavo il tagliere, assaggio le pennette che sono quasi cotte. Occuparsi le mani è pacificante.
Fuori fa brutto tempo, ma io mi prendo cura della mia solitudine. Ed è bello.

mercoledì 22 giugno 2011

~{S}~

Quando andavo al catechismo San Tommaso (quello che voleva mettere il dito nelle piaghe di Cristo) mi stava antipaticissimo. La sua mancanza di fede mi pareva un affronto, tanto più che finiva per ricredersi perdendo anche il fascino del ribelle o del cattivo.
Col passare del tempo invece (a parte aver capito che non c'è niente di male in un po' di sano empirismo) ho finito per sviluppare una specie di simpatia solidale nei suoi confronti. È che Tommaso detto Didimo, poverino, quando finalmente esclama "mio Signore e mio Dio" lo fa con un'urgenza che odora quasi di vergogna. E io penso: mi stava tanto antipatico, ma i difetti che vediamo negli altri spesso e volentieri sono quelli che ci portiamo addosso – nel peggiore dei casi dentro – e senza accorgercene passiamo gran parte del tempo a condannare la nostra immagine riflessa nello specchio del mondo. Così quell'enfatico minimalismo, che mi è sempre parso un po' velato d'imbarazzo, mi ha fatto venire il sospetto che il problema di questo ragazzo qui non fosse tanto la mancanza di fede negli altri (che si tratti dei compagni apostoli o di dio non cambia granché: il principio è il medesimo e si può vivere serenamente senza), ma più che altro la mancanza di fiducia in se stesso. Perché quando hai quella il resto vien da sé e non ti vergogni di nulla, men che meno di aver voluto verificare qualcosa in prima persona: fa parte del tuo modo di essere e va bene così.
"Non c'è altra via se non quella in cui possiamo riconoscerci in ogni gesto e in ogni parola, quella della tenace fedeltà a noi stessi". Non si tratta della mancanza di contraddizioni, ma piuttosto di quella coerenza che si costituisce anche sulle contraddizioni. Uscire di strada, poi magari tornarci, poi perdersi ancora, magari scoprire che la tua strada non è La Strada ma questo cammino impervio e pieno di deviazioni, che non sai bene dove andrà a parare ma è il tuo, e percorrerlo è un esercizio multiforme e mutevole e mobile di coerenza.
Un po' come un fiume, che è sempre quel fiume lì anche se l'acqua arriva e scorre e va e in fin dei conti fa un po' quello che le pare, e non s'è mai sentito dire che un fiume si vergognasse della propria acqua. O che non fosse felice.

lunedì 20 giugno 2011

Elenco #2

Continuo a scrivere sul quadernetto e non rimane quasi nulla per questi poveri tasti, come si fa? Proverò a fare un altro elenco, questa volta di cose di cui mi sono accorta in questi giorni. Lo faccio numerato ma l'ordine è sparso come sempre, ché l'ordine sparso è un po' un ossimoro e mi piace.
1) Finalmente mi sono resa conto che passerà anche giugno, come tutto e forse anche troppo in fretta.
2) Le foglie d'alloro appassiscono più velocemente di quanto t'aspetteresti (non è una metafora).
3) Sono meteoropatica perché so di essere meteoropatica. Se riesco a comprenderlo per davvero è fatta.
4) Mi sento molto più io di quanto mi senta donna o uomo, ma tra i due mi sa che ora come ora mi sento più donna che uomo (proprio di poco e forse un tipo un po' strano di donna, ma insomma sì).
5) A volte la riposta migliore alle domande che mi pongo è: chissenefrega.

martedì 14 giugno 2011

Elenco

Ritrovare in soffitta uno dei tuoi primi disegni o una scatola piena delle tue vecchie biglie o una foto di tua madre a sedici anni bella da rimanere a bocca aperta.
Le giornate che si allungano, e ogni primavera sorprendersi che l'erba sia di nuovo verde e il sole di nuovo caldo, come se il cuore (o la pancia o il fegato o chi per esso) si svegliasse tutto d'un colpo da un letargo durato sei mesi.
Qualsiasi cosa di Mozart.
L'acqua.
Scoprire che tuo papà ti conosce meglio di quanto pensassi e anche se non parlate tantissimo sa che cosa è da te e che cosa no.
Conoscere una persona nuova.
Una bella canzone che passa alla radio proprio mentre sali in macchina.
Anche: un caffè fatto bene.
Trovare i segni (che non esistono ma ci sono) e sorridere da soli camminando per strada e non vedere l'ora di raccontarlo a.
Il cane che se gli fischi non ti caga di striscio ma scodinzola un sacco quando torni a casa e ti fa tenerezza perché a volte ti sembra di essere un po' come lui.
L'odore del legno.
Finire un libro che volevi leggere da anni e non restare deluso.
Tuo nonno che ti racconta come si sono conosciuti lui e la nonna, lei che ogni tanto lo corregge e gli occhi di entrambi che sembrano quelli di due ragazzini.
Il numero sette.
La prima volta che hai visto la luna rossa.
La pasta col peperoncino.
La gioia leggera e scintillante di essere vivi.

domenica 12 giugno 2011

°

Imparare dagli alberi.
Che quando piove stanno lì, non gliene frega niente a loro, non battono ciglio. Ché tanto prima o poi anche la pioggia finisce.

martedì 7 giugno 2011

{fratello mare}

Oggi sono andata a cercare il mare e ci ho fatto pace. Anche se oggi non sembrava proprio giornata, con quel cielo grigionero e il vento rabbioso e le minacce di pioggia. Eppure.
Io e il mare siamo come due fratelli che litigano sempre e a volte si prendono a pugni. Quando finiamo di fare a botte dobbiamo ammettere – col sangue sul labbro e una ritrosia tutta maschile – che in fondo però ci vogliamo bene. A modo nostro, ma ci vogliamo bene. Un po’ come uomini d’altri tempi.
Sono andata a cercare il mare. Senza rendermi nemmeno conto, e proprio oggi che la giornata sembrerebbe così inadatta agli incontri, soprattutto di questo tipo. E invece.
Come fratelli, appunto: somiglianti. Forse abbiamo potuto ritrovarci proprio per questo, come se avessimo una sorta di marchio sul dorso della mano, una cicatrice piccola che parla di giuramenti solenni tra ragazzini (ché infatti erano tanti anni che non ci vedevamo – che non ci vedevamo davvero, intendo). Ho trovato un mare torbido, malinconico e svogliato, un po’ incazzato senza sapere bene con chi, con se stesso o forse con il cielo (ché tanto non cambia granché). Ci siamo guardati, un po’ di sottecchi ma a lungo, abbiamo gli occhi diversi ma lo stesso naso e un modo simile di corrugare la fronte.
C’era una cosa nera che galleggiava e probabilmente non era nulla ma io ho deciso di credere che fosse una scarpa, però una scarpa che era solo una cosa nera, che non c’entrava niente con gli umani e per questo potevo guardarla e basta, senza pensare a niente.
Sono contenta di aver fatto pace con il mare, perché è uno di quegli amici con cui puoi stare in silenzio a fissare una cosa nera che galleggia e pensare a un accidenti di nulla, ché non serve dire niente e l’importante è essere lì, anche se c’è un vento che tira via e tra poco forse piove. Stare seduti lì lo stesso, zitti, fianco a fianco sullo scoglio, e basta.

sabato 4 giugno 2011

.elbow Room.

Sembra che a forza di avvicinarsi si debba sempre finire per farsi del male a vicenda. Forse è per questo che il comandamento cristiano di amare il prossimo non è poi così scontato come si potrebbe credere a prima vista.
Non per niente anche i pugili si abbracciano.
Hanno capito tutto gli inglesi, che sanno quanto è importante lo spazio di manovra dei gomiti, così quando ti giri di scatto eviti di rompere le costole a chi dorme al tuo fianco.

giovedì 2 giugno 2011

cose da mani.

Le mie mani hanno voglia di costruire.
Dev'essere una sorta di contrappasso, dato che la mia testa ha scelto tutta un'altra strada.
E però. Sto qui davanti e vorrei scrivere qualcosa ma le mie mani non vogliono scrivere. Hanno voglia di costruire, loro.
Oppure anche scrivere va bene, purché sia uno scrivere in senso meccanico. Potrei stare qui a fare una lista di parole la cui terza lettera è una R, per esempio. Tipo:
1) carapace
2) strazio
3) corrugare
4) ferro
5) serafico
Meglio ancora sarebbe farla a mano, la lista. Con la penna, ne abbiamo una nuova (io e le mie mani) che è proprio un piacere da usare (per me e le mie mani).
Un'altra cosa che vorrebbero fare le mie mani è stringere il manubrio della moto, ma oggi pioveva dannazione e la moto non l'abbiamo potuta usare.
Potrei far preparare loro il caffè (alle mie mani), oppure frugare in una vecchia scatola da cucito della mia nonna. Sarebbero contente anche di accarezzare il cane (le mie mani), ma solo per un po', ché alla lunga si annoiano.
Alle mie mani piace tanto anche lavare i vinili, è una soddisfazione comprare un vecchio disco impolverato e scoprire che dopo un lavaggio è messo meglio di quanto sperassimo (io e le mie mani), però i vinili li abbiamo lavati già tutti.
A volte ho pensato che le mie mani fossero più intelligenti di me, ma non lo so se è vero: alle mie mani pensare non interessa, loro vogliono costruire.
Forse le mie mani si ricordano che le altre mani più vecchie di loro erano mani di pastori, falegnami e contadini. E allora vogliono stare fuori, a toccare la terra e il legno, alle mie mani la plastica non piace tanto e il metallo così così.

Le mie mani vogliono fare cose da mani, poverine, e hanno tutte le sacrosante ragioni del mondo.

venerdì 27 maggio 2011

questioni di esercizio, #2

Mi piace la colazione.
Ogni mattina riprendere contatto con il mondo in un rito minimo e tattile, qualcosa che si fa, con le mani, come un mestiere antico (un mestiere in senso letterale, il cui guadagno è il quotidiano ricorso dell'esistenza).
La parola "colazione" deriva dal latino "confero", che vuol dire "portare insieme" e anche "riunirsi", e infatti il nostro mondo è soprattutto un mondo di persone, che sta tra noi anche quando siamo soli e ci divide e ci collega eccetera eccetera, c'è chi l'ha spiegato molto meglio di me. Mi piace pensare che la moka che sto caricando è stata toccata da altre mani vive, e così il coltello con cui sbuccio la frutta e il pane che taglio. I gesti della colazione diventano così tante piccole strette di mano, quasi il riassunto di un abbraccio, buongiorno agli uomini di buona volontà (la magia di avere riaperto gli occhi anche stavolta dopo quella piccola morte – con tanto di altra vita ultraterrena – che è il sonno ci rende spesso un po' più misericordiosi).
Fare colazione con qualcun altro è un'azione d'intimità – abbastanza ovvio, ok – ma anche una specie di scambio interculturale (io bevo caffelatte—io the—i biscotti li vuoi?—mi fai assaggiare quella marmellata?). È diverso da una cena, quella la puoi fare con tutti, ma anche dal pranzo – che mi è sempre sembrato già più personale, chissà perché.
Prendersi il tempo di fare colazione è un bell'esercizio quotidiano di cura di sé, di quel tipo in cui ci si prende cura un po' anche del mondo, in modo biunivoco e corrispondente.
Cominciamo a farlo tutti?
Ho voglia di credere che se cominciamo a prenderci il tempo di fare colazione c'è davvero qualche speranza di fare del mondo un qualcosa di più bello. Un po' per giorno.

mercoledì 25 maggio 2011

Forse siamo davvero svegli solo quando sogniamo, e la coerenza logica è un'illusione notturna che non esiste nella vita reale.

lunedì 23 maggio 2011

~overload eSperienziale~

Dovessi (e potessi) raccontare questi sette giorni ci vorrebbe almeno il doppio del tempo che è servito per viverli. Ma: tutto si muove come un mare nero e lucente, i flutti si tuffano l'uno dentro l'altro in un gorgo multicolore, io non faccio in tempo a nominare la spigola che è già diventata una lampreda che è diventata uno storione e così via.
Per adesso riesco solo a stare seduta su uno scoglio a lasciarmi brillare tutto questo nel fondo degli occhi.

lunedì 16 maggio 2011

w Eraclito, ʍ Parmenide

Stavo scrivendo un post sul diritto a essere giovani e scemi e a sporcarsi le mani con la vita, poi però ho trovato una vecchia mail e ho cambiato idea.

Il passato è una cosa stranissima.
O meglio: quello che mi ha sempre stupito e affascinato non è il passato in sé, che poverino sta lì e non fa male a nessuno (tranne casi particolari, sì, ma anche lì la responsabilità non è tanto sua quanto di chi guarda – il passato è solo passato, tutto il resto è interpretazione), ma la percezione soggettiva del tempo. Quella cosa per cui quando stai bene bene i giorni ti scorrono tra le dita come un nastro di raso, e poi a volte ripensi a certe situazioni e ti sembra che appartengano a una dimensione parallela in cui il cielo è color lavanda e le parole hanno un suono diverso.
E il passato è quello che ci permette di vederla, questa percezione soggettiva. Perché il futuro, si sa, non esiste e il presente siamo troppo impegnati a viverlo, ci manca quella distanza minima che rende possibile lo sguardo (uno sguardo).
Sarà una cosa stupida, ma a me questo fatto del tempo che cambia e ci cambia – anzi forse no, ma cambia le situazioni, il mondo in cui siamo e quindi indirettamente anche le modalità del nostro essere-in – insomma questa sensazione di fluidità universale, lo scorrere e il mutamento e tutto quello di cui ci accorgiamo solo quando ci passa l'ubriacatura del vivere, cioè quando ora non è più ora ma ieri, l'altro mese, tre anni fa. Ecco, io di tutto questo continuo a stupirmi e non riesco mai davvero ad abituarmici.

Grazie al cielo.

sabato 14 maggio 2011

questioni di esercizio, #1

Perché è tanto difficile imparare a sbarazzarsi delle aspettative? In fondo si sta molto meglio senza, che così non possono essere disattese e ogni cosa bella ha il valore aggiunto della sorpresa. Sì, è vero che a volte abbiamo bisogno anche di qualche anticipazione – più che altro per una questione di logistica – ma perché dobbiamo calcare così tanto la mano?
Non hai fatto questo, e allora io—.
Preferisco pensare che se le nostre strade non si sono incrociate oggi magari lo faranno domani. O domani l'altro. Che in ogni caso ci sono tante di quelle cose da fare vedere toccare, nel frattempo.
Poi sarà anche che ho un bisogno quasi bulimico di novità (o almeno di variazioni) e l'idea della fissità più che all'eterno m'ha sempre fatto pensare alla morte. Annessi e connessi, eccetera eccetera.
E il rischio sì, è sempre in agguato, perché forse è un tentativo di sentirsi meno di passaggio, un po' come pensare che il sole sorgerà anche domani e che ci sveglieremo sani e salvi (che infatti—). Però.
In primis vorrei non deludere le aspettative di nessuno, e il modo migliore (con buona pace di tutti quanti) sarebbe di non doverle nemmeno soddisfare.
E soprattutto. Non voglio perdere tempo a pensare che sarebbe stato tanto bello se.

Voglio che sia bello uguale, e basta.

giovedì 12 maggio 2011

NomeNomeN

A volte mi sembra di avere una specie di compulsione ad esprimermi.
È che forse ho a disposizione troppi mezzi e finisco per saltare dalla chitarra alla penna alla tavoletta grafica come una mosca senza testa. Che non sarebbe una brutta cosa di per sé, il problema è che trattandosi di una compulsione tende a rimanere costantemente insoddisfatta.
Cioè, io tendo a rimanere costantemente insoddisfatta.
Accumulare tentativi di.
E allora rimpiango un po' di non avere la costanza di quelle persone che scelgono una cosa – una, santo cielo! – tirano avanti a testa bassa e la portano a termine. Tipo che imbocchi una strada e cammini e cammini e poi arrivi in un posto che è quello dove stavi andando.
Un esercizio letterale di perfezione.
Solo che io a scegliere una strada non ci riesco mica.
Ci provo ad andare avanti, a pensare all'obiettivo, però poi vedo quel vicolo (così interessante) e intanto che mi chiedo se ne vale la pena ci sono già dentro. E poi un altro. E un altro, e un altro, e un altro.
E mica la rimpiango la strada maestra. Cioè ok ogni tanto mi chiedo dov'è che volevo andare, però i vicoli sono così pieni di tutto e poi chissà che non ti ci portino anche loro in quel posto là, qualunque fosse.
Quando da piccola ho scoperto che ormai l'epoca degli esploratori era finita, che oggi il mondo ce l'abbiamo tutto sotto gli occhi, ci sono rimasta malissimo.
"Digressione" alla lettera significa "allontanamento", ma secondo me non è mica vero. Quando digredisci non è che stai lì a pensare a quello che lasci, sei troppo occupato ad avvicinarti ad Altro (sennò mica lo faresti, mi vien da dire – maledetto mito dell'efficienza).
E insomma ieri ho scoperto che il mio nome trasposto in greco significa "cammino stretto, viottolo, corridoio".
Ecco.

lunedì 9 maggio 2011

QUEsito odiERno:

Quando le bambine della ginnastica artistica confabulano alle tue spalle negli spogliatoi – "Però ha il reggiseno..." – e poi fanno la spola per venirti a spiare nelle docce significa che ormai sei nel gender-bending fino alle ginocchia?

domenica 8 maggio 2011

*

Ma com'è bello che un grosso pezzo di plastica nera diventi sir John Winston Lennon che viene a dirti che "sì" è la risposta.

giovedì 5 maggio 2011

Insomma, da qualche parte toccherà pure incominciare. E allora.

Voglio imparare a camminare più piano. Non ho mai pensato di essere una di quelle persone che vedi sfrecciare nella folla con lo sguardo rivolto all'interno, che per salutarle le devi chiamare per nome perché loro vedono solo dove stanno andando.
Ma forse, invece.
Credo sia una specie di fobia, perché a guardarli bene questi corridori del vivere quotidiano hanno sempre un'espressione un po' strana, come una specie di terrore in incognito.
È che bisogna avere uno scòpo, un posto dove andare – o almeno fare finta di. Camminare senza mèta sembra quasi una forma di immoralità, e allora cerchiamo almeno di non farci cogliere in flagrante.
E insomma credo che per me sia un po' un problema di visibilità. Mi vergogno come quando parlo con più di due persone e mi rendo conto di avere l'attenzione di tutti: il lato oscuro dell'egocentrismo. Allora per strada accelero il passo, mi nascondo dietro la simulazione di un impegno, poi il fatto è anche che per forza di cose la lentezza ti rende più visibile. Pensa alle foto, ad esempio.
Però.
È una visibilità a doppio senso. Ho scoperto che quando cammini piano noti un sacco di cose che prima non notavi (più). Lo so, non è questa gran trovata, però un conto è saperla, una cosa, e un altro è vederla dispiegarsi sotto ai tuoi occhi.
E così.
Voglio imparare a camminare più piano. E chissenefrega della visibilità, tanto gli altri sono tutti occupati a far vedere che stanno andando da qualche parte.