venerdì 27 maggio 2011

questioni di esercizio, #2

Mi piace la colazione.
Ogni mattina riprendere contatto con il mondo in un rito minimo e tattile, qualcosa che si fa, con le mani, come un mestiere antico (un mestiere in senso letterale, il cui guadagno è il quotidiano ricorso dell'esistenza).
La parola "colazione" deriva dal latino "confero", che vuol dire "portare insieme" e anche "riunirsi", e infatti il nostro mondo è soprattutto un mondo di persone, che sta tra noi anche quando siamo soli e ci divide e ci collega eccetera eccetera, c'è chi l'ha spiegato molto meglio di me. Mi piace pensare che la moka che sto caricando è stata toccata da altre mani vive, e così il coltello con cui sbuccio la frutta e il pane che taglio. I gesti della colazione diventano così tante piccole strette di mano, quasi il riassunto di un abbraccio, buongiorno agli uomini di buona volontà (la magia di avere riaperto gli occhi anche stavolta dopo quella piccola morte – con tanto di altra vita ultraterrena – che è il sonno ci rende spesso un po' più misericordiosi).
Fare colazione con qualcun altro è un'azione d'intimità – abbastanza ovvio, ok – ma anche una specie di scambio interculturale (io bevo caffelatte—io the—i biscotti li vuoi?—mi fai assaggiare quella marmellata?). È diverso da una cena, quella la puoi fare con tutti, ma anche dal pranzo – che mi è sempre sembrato già più personale, chissà perché.
Prendersi il tempo di fare colazione è un bell'esercizio quotidiano di cura di sé, di quel tipo in cui ci si prende cura un po' anche del mondo, in modo biunivoco e corrispondente.
Cominciamo a farlo tutti?
Ho voglia di credere che se cominciamo a prenderci il tempo di fare colazione c'è davvero qualche speranza di fare del mondo un qualcosa di più bello. Un po' per giorno.

mercoledì 25 maggio 2011

Forse siamo davvero svegli solo quando sogniamo, e la coerenza logica è un'illusione notturna che non esiste nella vita reale.

lunedì 23 maggio 2011

~overload eSperienziale~

Dovessi (e potessi) raccontare questi sette giorni ci vorrebbe almeno il doppio del tempo che è servito per viverli. Ma: tutto si muove come un mare nero e lucente, i flutti si tuffano l'uno dentro l'altro in un gorgo multicolore, io non faccio in tempo a nominare la spigola che è già diventata una lampreda che è diventata uno storione e così via.
Per adesso riesco solo a stare seduta su uno scoglio a lasciarmi brillare tutto questo nel fondo degli occhi.

lunedì 16 maggio 2011

w Eraclito, ʍ Parmenide

Stavo scrivendo un post sul diritto a essere giovani e scemi e a sporcarsi le mani con la vita, poi però ho trovato una vecchia mail e ho cambiato idea.

Il passato è una cosa stranissima.
O meglio: quello che mi ha sempre stupito e affascinato non è il passato in sé, che poverino sta lì e non fa male a nessuno (tranne casi particolari, sì, ma anche lì la responsabilità non è tanto sua quanto di chi guarda – il passato è solo passato, tutto il resto è interpretazione), ma la percezione soggettiva del tempo. Quella cosa per cui quando stai bene bene i giorni ti scorrono tra le dita come un nastro di raso, e poi a volte ripensi a certe situazioni e ti sembra che appartengano a una dimensione parallela in cui il cielo è color lavanda e le parole hanno un suono diverso.
E il passato è quello che ci permette di vederla, questa percezione soggettiva. Perché il futuro, si sa, non esiste e il presente siamo troppo impegnati a viverlo, ci manca quella distanza minima che rende possibile lo sguardo (uno sguardo).
Sarà una cosa stupida, ma a me questo fatto del tempo che cambia e ci cambia – anzi forse no, ma cambia le situazioni, il mondo in cui siamo e quindi indirettamente anche le modalità del nostro essere-in – insomma questa sensazione di fluidità universale, lo scorrere e il mutamento e tutto quello di cui ci accorgiamo solo quando ci passa l'ubriacatura del vivere, cioè quando ora non è più ora ma ieri, l'altro mese, tre anni fa. Ecco, io di tutto questo continuo a stupirmi e non riesco mai davvero ad abituarmici.

Grazie al cielo.

sabato 14 maggio 2011

questioni di esercizio, #1

Perché è tanto difficile imparare a sbarazzarsi delle aspettative? In fondo si sta molto meglio senza, che così non possono essere disattese e ogni cosa bella ha il valore aggiunto della sorpresa. Sì, è vero che a volte abbiamo bisogno anche di qualche anticipazione – più che altro per una questione di logistica – ma perché dobbiamo calcare così tanto la mano?
Non hai fatto questo, e allora io—.
Preferisco pensare che se le nostre strade non si sono incrociate oggi magari lo faranno domani. O domani l'altro. Che in ogni caso ci sono tante di quelle cose da fare vedere toccare, nel frattempo.
Poi sarà anche che ho un bisogno quasi bulimico di novità (o almeno di variazioni) e l'idea della fissità più che all'eterno m'ha sempre fatto pensare alla morte. Annessi e connessi, eccetera eccetera.
E il rischio sì, è sempre in agguato, perché forse è un tentativo di sentirsi meno di passaggio, un po' come pensare che il sole sorgerà anche domani e che ci sveglieremo sani e salvi (che infatti—). Però.
In primis vorrei non deludere le aspettative di nessuno, e il modo migliore (con buona pace di tutti quanti) sarebbe di non doverle nemmeno soddisfare.
E soprattutto. Non voglio perdere tempo a pensare che sarebbe stato tanto bello se.

Voglio che sia bello uguale, e basta.

giovedì 12 maggio 2011

NomeNomeN

A volte mi sembra di avere una specie di compulsione ad esprimermi.
È che forse ho a disposizione troppi mezzi e finisco per saltare dalla chitarra alla penna alla tavoletta grafica come una mosca senza testa. Che non sarebbe una brutta cosa di per sé, il problema è che trattandosi di una compulsione tende a rimanere costantemente insoddisfatta.
Cioè, io tendo a rimanere costantemente insoddisfatta.
Accumulare tentativi di.
E allora rimpiango un po' di non avere la costanza di quelle persone che scelgono una cosa – una, santo cielo! – tirano avanti a testa bassa e la portano a termine. Tipo che imbocchi una strada e cammini e cammini e poi arrivi in un posto che è quello dove stavi andando.
Un esercizio letterale di perfezione.
Solo che io a scegliere una strada non ci riesco mica.
Ci provo ad andare avanti, a pensare all'obiettivo, però poi vedo quel vicolo (così interessante) e intanto che mi chiedo se ne vale la pena ci sono già dentro. E poi un altro. E un altro, e un altro, e un altro.
E mica la rimpiango la strada maestra. Cioè ok ogni tanto mi chiedo dov'è che volevo andare, però i vicoli sono così pieni di tutto e poi chissà che non ti ci portino anche loro in quel posto là, qualunque fosse.
Quando da piccola ho scoperto che ormai l'epoca degli esploratori era finita, che oggi il mondo ce l'abbiamo tutto sotto gli occhi, ci sono rimasta malissimo.
"Digressione" alla lettera significa "allontanamento", ma secondo me non è mica vero. Quando digredisci non è che stai lì a pensare a quello che lasci, sei troppo occupato ad avvicinarti ad Altro (sennò mica lo faresti, mi vien da dire – maledetto mito dell'efficienza).
E insomma ieri ho scoperto che il mio nome trasposto in greco significa "cammino stretto, viottolo, corridoio".
Ecco.

lunedì 9 maggio 2011

QUEsito odiERno:

Quando le bambine della ginnastica artistica confabulano alle tue spalle negli spogliatoi – "Però ha il reggiseno..." – e poi fanno la spola per venirti a spiare nelle docce significa che ormai sei nel gender-bending fino alle ginocchia?

domenica 8 maggio 2011

*

Ma com'è bello che un grosso pezzo di plastica nera diventi sir John Winston Lennon che viene a dirti che "sì" è la risposta.

giovedì 5 maggio 2011

Insomma, da qualche parte toccherà pure incominciare. E allora.

Voglio imparare a camminare più piano. Non ho mai pensato di essere una di quelle persone che vedi sfrecciare nella folla con lo sguardo rivolto all'interno, che per salutarle le devi chiamare per nome perché loro vedono solo dove stanno andando.
Ma forse, invece.
Credo sia una specie di fobia, perché a guardarli bene questi corridori del vivere quotidiano hanno sempre un'espressione un po' strana, come una specie di terrore in incognito.
È che bisogna avere uno scòpo, un posto dove andare – o almeno fare finta di. Camminare senza mèta sembra quasi una forma di immoralità, e allora cerchiamo almeno di non farci cogliere in flagrante.
E insomma credo che per me sia un po' un problema di visibilità. Mi vergogno come quando parlo con più di due persone e mi rendo conto di avere l'attenzione di tutti: il lato oscuro dell'egocentrismo. Allora per strada accelero il passo, mi nascondo dietro la simulazione di un impegno, poi il fatto è anche che per forza di cose la lentezza ti rende più visibile. Pensa alle foto, ad esempio.
Però.
È una visibilità a doppio senso. Ho scoperto che quando cammini piano noti un sacco di cose che prima non notavi (più). Lo so, non è questa gran trovata, però un conto è saperla, una cosa, e un altro è vederla dispiegarsi sotto ai tuoi occhi.
E così.
Voglio imparare a camminare più piano. E chissenefrega della visibilità, tanto gli altri sono tutti occupati a far vedere che stanno andando da qualche parte.