domenica 20 novembre 2011

Non vuoi dirmi il tuo nome? — Mi chiamo Michäel.

Probabilmente conoscete già la storia, almeno a grandi linee (in ogni caso cercherò di non svelarvi nulla di troppo): tutto comincia con l’arrivo in un complesso residenziale di una coppia di genitori con due figlie di sei e dieci anni e un terzo bambino in arrivo. La primogenita, Laure, predilige – a differenza della sorellina Jeanne – abiti unisex e capelli corti, e il suo aspetto androgino fa sì che i nuovi compagni di giochi la prendano subito per un maschio. Laure  non si scompone e, appropriandosi con un certa disinvoltura dell'identità maschile, si presenta come Michäel e dà vita a un gioco identitario caratterizzato da una performance di ruolo assolutamente credibile nella sua discretezza.
Si ha l'impressione di un fine lavoro di cesellatura, tanto nella pratica performativa di Laure/Michäel quanto in quella registica di Sciamma: quest'ultima riporta sullo schermo con delicatezza e attenzione ai dettagli la ricerca altrettanto minuziosa del* prim* di tutto quanto vi può essere di riproducibile – e quindi, per ciò stesso, di potenzialmente artificiale – nella maschilità dei maschi. Una maschilità che Laure si rivela in grado di ri-produrre con leggerezza e naturalezza, in una performance il cui orizzonte di senso è sfumato come e quanto l'identità che il corpo performante agisce e mette in scena. È solo un gioco? O magari si tratta di un'esigenza in senso forte? Forse non è possibile dare una risposta netta, soprattutto perché probabilmente una risposta netta non esaurirebbe la fludità e la molteplicità con-fusa – nel senso di “fusa insieme” – che caratterizzano la/il protagonista di questa pellicola.
Se c'è infatti un oggetto/soggetto di confusione comunemente intesa nell'opera di Sciamma, non è tanto Laure/Michäel quanto forse gli spettatori e le spettatrici: la presunta passività del nostro sguardo è messa in discussione dal gioco (in senso forte, performativo) che si manifesta sullo schermo, da quella specie di danza sulla linea sottile che sta tra Laure e Michäel messa in atto dal corpo androgino che l'una e l'altro incarna. È così che Tomboy smaschera con grande finezza l'ossessione sociale per l'attribuzione di genere, caratteristica che si vorrebbe fondante del nostro venire al mondo (registrazione del sesso anagrafico) e del nostro stare insieme nel mondo (il nome proprio, connotato dal punto di vista del genere, che ci fa esistere socialmente e politicamente). Non è un caso che l'avventura di Michäel cominci non tanto con l'essere apostrofata al maschile di Laure, ma con il suo presentarsi appunto come Michäel.
Anche per chi è al di qua dello schermo, la differenza tra Laure e Michäel – se esiste – sembra essere sempre più affidata, oltre che agli elementi per così dire prostetici della performance (il cui culmine e simbolo sarà una sorta di vera e propria protesi estetica modellata nella plastilina), proprio al nome che a quel corpo viene di volta in volta attribuito. Il corpo che vediamo sullo schermo, che sfugge alla categorizzazione esclusiva ed escludente dello schema maschio/femmina, è infatti sempre identico a se stesso, espressione genuina di una identità (io=io) che – fuori, oltre, trans – si mostra e, con forza, esiste.

martedì 23 agosto 2011

Lilium Auratum


Ce n'è voluto di tempo per arrivarci. Che poi non era nemmeno una cosa così assurda, ma di pollice verde pare ce ne sia uno solo in ogni famiglia e nella mia il posto era già occupato dalla nonna. Comunque.
Ho capito che c'è un sacco da imparare dalla botanica.
Ad esempio saper portare pazienza, trovare la forza di separarsi dalle foglie secche, e soprattutto resistere al dolore della potatura, ché tanto poi ricresce tutto e (si spera) meglio di prima. Bisogna diventare capaci di liberarsi di quel po' di sé che va lasciato andare e restare impassibili di fronte all'inverno, tanto le stagioni girano e prima o poi—.
Tutte cose piccole, sì, ma importanti. Anche perché se ci pensi bene le cose piccole sono le sole che esistano.

domenica 14 agosto 2011

Chissà se i lepidotteri nel trasformarsi da bruco in pupa e poi in farfalla hanno una specie di memoria ancestrale che fa loro presentire ciò che saranno e li conforta quando si abbandonano alla metamorfosi.
Delle croci che man mano siamo costretti a portare, più di tutte ho sempre sofferto quella dell'ignoranza.

mercoledì 20 luglio 2011

__oblivion__

Ho il sospetto che i sogni si prendano gioco di me, per questo la mia testa spesso si rifiuta di rammentarli. Sull'impronta del metodo applicato a segni, coincidenze, interpretazioni – tutte cose che non esistono se non all'interno dei nostri occhi. Eppure.
Espunzione, anestesia.
L'agnosticismo è una scelta deliberata, per essere atei o credenti basta seguire il proprio istinto (lo stesso in entrambi i casi, cambia solo il segno o forse nemmeno).
Come quando a scuola ti prendevano in giro e la mamma ti diceva Ignorali che poi si stufano.

venerdì 15 luglio 2011

?·¿

Sarà vera quella storia del calabrone e delle leggi dell'aerodinamica?
Anche lanciarsi nel vuoto è una questione di esercizio, ma un po' più difficile di tante altre.
Soprattutto se non sei un calabrone.

mercoledì 6 luglio 2011

( )

Mi piace pensare agli oggetti come a un ponte tra le persone. Per loro tramite ci stiamo sempre toccando gli uni con gli altri, anche a chilometri di distanza, soprattutto quando si tratta di oggetti fatti da mani di donne e di uomini per essere adoperati da altre mani, di altre donne e di altri uomini.
Sono il simbolo concreto della rete di relazioni che ci unisce e che chiamiamo mondo. Non per niente lo stesso termine "simbolo" nella sua accezione originaria significava proprio questo: un anello spezzato in due a rappresentare il legame di ospitalità reciproca tra due persone; le metà venivano tramandate ai rispettivi discendenti e grazie a esse la relazione sopravviveva, come condensata nell'oggetto che sarebbe tornato completo quando le due metà si fossero ricongiunte ("simbolo" deriva dal greco "symballo", "mettere insieme").
Il mondo è un simbolo.
Lo condividiamo, lo spezziamo con gli sguardi, e torna unito quando comunichiamo.

sabato 2 luglio 2011

°°peaceful°°

Mi preparo la pasta.
È una pasta svuota-frigo, ci ho messo:
- Peperoncino
- Pomodoro
- Zucchine
- Speck a dadini
- Parmigiano
Fuori il tempo è grigio e umido e pesante, ma non me ne importa nulla.
Mi preparo la pasta, non c'è nessuno in casa, solo io. Taglio le verdure, lavo il tagliere, assaggio le pennette che sono quasi cotte. Occuparsi le mani è pacificante.
Fuori fa brutto tempo, ma io mi prendo cura della mia solitudine. Ed è bello.