Probabilmente conoscete già la storia, almeno a grandi linee (in ogni caso cercherò di non svelarvi nulla di troppo): tutto comincia con l’arrivo in un complesso residenziale di una coppia di genitori con due figlie di sei e dieci anni e un terzo bambino in arrivo. La primogenita, Laure, predilige – a differenza della sorellina Jeanne – abiti unisex e capelli corti, e il suo aspetto androgino fa sì che i nuovi compagni di giochi la prendano subito per un maschio. Laure non si scompone e, appropriandosi con un certa disinvoltura dell'identità maschile, si presenta come Michäel e dà vita a un gioco identitario caratterizzato da una performance di ruolo assolutamente credibile nella sua discretezza.
Si ha l'impressione di un fine lavoro di cesellatura, tanto nella pratica performativa di Laure/Michäel quanto in quella registica di Sciamma: quest'ultima riporta sullo schermo con delicatezza e attenzione ai dettagli la ricerca altrettanto minuziosa del* prim* di tutto quanto vi può essere di riproducibile – e quindi, per ciò stesso, di potenzialmente artificiale – nella maschilità dei maschi. Una maschilità che Laure si rivela in grado di ri-produrre con leggerezza e naturalezza, in una performance il cui orizzonte di senso è sfumato come e quanto l'identità che il corpo performante agisce e mette in scena. È solo un gioco? O magari si tratta di un'esigenza in senso forte? Forse non è possibile dare una risposta netta, soprattutto perché probabilmente una risposta netta non esaurirebbe la fludità e la molteplicità con-fusa – nel senso di “fusa insieme” – che caratterizzano la/il protagonista di questa pellicola.
Se c'è infatti un oggetto/soggetto di confusione comunemente intesa nell'opera di Sciamma, non è tanto Laure/Michäel quanto forse gli spettatori e le spettatrici: la presunta passività del nostro sguardo è messa in discussione dal gioco (in senso forte, performativo) che si manifesta sullo schermo, da quella specie di danza sulla linea sottile che sta tra Laure e Michäel messa in atto dal corpo androgino che l'una e l'altro incarna. È così che Tomboy smaschera con grande finezza l'ossessione sociale per l'attribuzione di genere, caratteristica che si vorrebbe fondante del nostro venire al mondo (registrazione del sesso anagrafico) e del nostro stare insieme nel mondo (il nome proprio, connotato dal punto di vista del genere, che ci fa esistere socialmente e politicamente). Non è un caso che l'avventura di Michäel cominci non tanto con l'essere apostrofata al maschile di Laure, ma con il suo presentarsi appunto come Michäel.
Anche per chi è al di qua dello schermo, la differenza tra Laure e Michäel – se esiste – sembra essere sempre più affidata, oltre che agli elementi per così dire prostetici della performance (il cui culmine e simbolo sarà una sorta di vera e propria protesi estetica modellata nella plastilina), proprio al nome che a quel corpo viene di volta in volta attribuito. Il corpo che vediamo sullo schermo, che sfugge alla categorizzazione esclusiva ed escludente dello schema maschio/femmina, è infatti sempre identico a se stesso, espressione genuina di una identità (io=io) che – fuori, oltre, trans – si mostra e, con forza, esiste.